Pensando a ciò che ci circonda e alle nostre abitudini, sorge spontaneo domandarsi se nel prossimo futuro, ci guarderemmo alla spalle e potremmo sentirci soddisfatti di essere riusciti ad approfittare dello stand-by collettivo per trasformare una crisi globale in un’occasione di ripensamento delle nostre vite e delle nostre città. E le nostre città lo sanno bene, perché sono sempre state i primi soggetti ad essere plasmati dalle malattie. Il colera influenzò la moderna rete stradale, la peste scoppiata in Cina nel 1855 cambiò il design di tutto, dai tubi di scarico alle soglie delle porte e l'estetica del modernismo è stata in parte il risultato della tubercolosi, con sanatori inondati di luce, stanze dipinte di bianco e servizi igienici piastrellati. La forma ha sempre seguito la paura dell'infezione, tanto quanto la funzione. Prima della pandemia odierna, lenti cambiamenti erano già in atto e avrebbero chiesto gradualità: adesso avverranno istantaneamente.
Ad oggi una nuova trasformazione degli spazi vitali si intravede, nitida, all'orizzonte: sta a noi l'onere di trasformare la crisi in opportunità, per realizzare cose impensabili, in equilibrio con il ritmo della Terra e le sue leggi naturali.
Per quanto riguarda la città, c’è da osservare che fino ad oggi il design degli spazi pubblici era stato concepito per facilitarne la prossimità, l’incontro, lo scambio, favorendo le relazioni tra le persone. Ma il virus è stato in grado di minare questa natura stessa dell’urbanità, basata sulla mescolanza e sulla convivenza serrata tra le persone. Il ritorno alla normalità, prima della scoperta di un vaccino e quindi alla completa sconfitta del virus, sarà un ingresso in una “nuova normalità”, dettata da un’inversione di marcia, in cui il design è chiamato per la prima volta a dare forma alle distanze spaziali ed umane. Ma attenzione, sarà proprio ora che non saremo più ostaggio della paura, che tenderemo a voler tornare alla vita di prima, o per lo meno ci potrà sembrare la migliore ed immediata soluzione possibile. Pe evitare di “ri-adagiarci sugli allori”, si dovrà avere il coraggio di adottare finalmente un approccio contemporaneo alla progettazione dei servizi, non solo attraverso il design, ma con la combinazione di scienze del comportamento e della comunicazione. Lo stesso coraggio che ebbero Frederick Law Olmsted e Calvert Vaux nel 1800, quando immaginarono Central Park a New York, durante un periodo in cui la città era in piena crescita e sviluppo urbano, in cui lo spazio edificabile diventava sempre più raro e prezioso: rinunciare ad un suolo edificabile apparve a tutti un’assurdità, un’enorme perdita di profitti. Fu da quel straordinario gesto di rinuncia che un’urbanistica molto attenta al bene comune, diede vita ad un’opera di bonifica ambientale e di rinaturalizzazione, oggi parco e polmone verde della città, esemplare fonte di benessere collettivo per gli abitanti della grande mela.
A tal proposito, si può citare l’attuale proposta di Anne Hidalgo, sindaca di Parigi: la “città del quarto d’ora”, metafora che riporta la città ad una dimensione più umana, in cui si accorcia ogni distanza, in cui tante isole e comunità solidali scandiscono i propri ritmi secondo la nuova unità di misura. Tutti i servizi sono ripensati in modo da essere raggiungibili a piedi o in bicicletta dai cittadini in massimo 15 minuti, eliminando la necessità di utilizzare auto o altri mezzi a motore. Nel raggio di 300 metri dalla propria abitazione si dovrebbe poter accedere a tutto ciò che serve per la vita quotidiana: scuole, negozi, servizi e spazi pubblici, ristorazione, verde urbano. La qualità della vita aumenterebbe e anche quella dell'ambiente. I vantaggi sarebbero molteplici: abbattimento delle polveri sottili e della CO2, spazi liberati di parcheggi rinverditi e trasformati.
Un modello di vita e di città, meglio conosciuto come mixitè funzionale, che in un momento di crisi e di emergenza può sicuramente fare la differenza.
Siamo culturalmente abituati a ragionare sulle città come se tutto dipendesse dal buon disegno, in pianta, di edifici, spazi aperti, verde urbano e servizi.
In realtà, oggi più che mai ci rendiamo conto che le città hanno a che fare più con il tempo, che con lo spazio.
E se riuscissimo a donare a noi stessi del tempo “qualitativo” saremo già a buon punto di questa tanto augurata rinascita.
architetto Nina Russo